Sunday, August 03, 2003
§--§ X e ancora §--§
La Gabbia è tutto quando apro gli occhi. Non so se era un sogno o un ricordo. E’ eccezionale in ogni caso. E comunque non importa, sta gia' svanendo, si sfilaccia rapidissimo, a ritroso, e nel tempo di un soffio – fff—non c’è mai stato. Non penso piu' da tanto. Quando comincio a sentirmi un po’ male enuncio i Fatti, inconfutabili. Posso ricordarli, sono semplici.
La Gabbia è poco piu' grande di me, all’incirca rettangolare, posso sdraiarmi solo in diagonale altrimenti non ci sto. Non che importi, di solito sto accucciata anche quando dormo. In verticale è molto alta.
La Gabbia ha pareti a grandi riquadri, non imbottiti, ne’ freddi ne’ caldi. Dipende dalla temperatura generale. Non so di che materiale siano fatti. Sembrano piastrelle ma credo di sapere che sono piu' resistenti. Non c’è porta.
La Gabbia ha una sola finestra, piuttosto grande, il cui bordo inferiore comincia a quella che sarebbe l’altezza delle mie spalle se mi alzassi in piedi. Non ha ante, è sempre aperta. Non ha sbarre ne’ cancelli, solo una zanzariera fitta fitta che sfoca la visuale. Non credo che ci passi corrente elettrica, ma per qualche motivo deve essere piu' forte di quel che sembri, altrimenti la potrei sfondare con un calcio. Se non l’ho fatto a suo tempo e sono ancora qui vorra' dire che non è una semplice zanzariera.
La Gabbia non offre panorami. Attraverso la zanzariera si vede solo un bianco sporco uniforme, che potrebbe essere un muro lontanissimo cosi' come un’istantanea di un cielo prima della neve, con poco sole. Non arrivano suoni, da fuori, salvo qualche occasionale voce lontana che grida parole inintellegibili.
La Gabbia non è arredata. Non ci sono nemmeno vasi da notte, piatti sporchi, o qualcosa di altrettanto spartano che faccia distinguere se si tratta di una punizione o di un premio. Di Fatto, la chiamo Gabbia per praticita' e convenzione, perché, suppongo, l’ho chiamata cosi' dall’inizio e il nome è rimasto.
Passo la punta della lingua sulle labbra, le sento spaccate dall’arsura. Mi guardo le braccia, e posso seguire con facilita' il tracciato delle vene direttamente tra derma e osso. Eppure non provo sete, non sento fame, non ho necessità di espellere feci o urine.
Credo di aver pensato molto una volta, verso l’inizio. Penso di aver preso in esame tutte le possibilita', forse di aver fatto piani di fuga, o magari di aver ringraziato estatica per il dono concessomi. Non me lo ricordo e non ho interesse a saperlo. Se sono qui, vuol dire che ho gia' pensato tutto il possibile e se qui resto, vuol dire che non c’è alternativa.
Enuncio i Fatti.
Enuncio i Fatti.
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La Gabbia è tutto quando apro gli occhi. Non so se era un sogno o un ricordo. E’ eccezionale in ogni caso. E comunque non importa, sta gia' svanendo, si sfilaccia rapidissimo, a ritroso, e nel tempo di un soffio – fff—non c’è mai stato. Non penso piu' da tanto. Quando comincio a sentirmi un po’ male enuncio i Fatti, inconfutabili. Posso ricordarli, sono semplici.
La Gabbia è poco piu' grande di me, all’incirca rettangolare, posso sdraiarmi solo in diagonale altrimenti non ci sto. Non che importi, di solito sto accucciata anche quando dormo. In verticale è molto alta.
La Gabbia ha pareti a grandi riquadri, non imbottiti, ne’ freddi ne’ caldi. Dipende dalla temperatura generale. Non so di che materiale siano fatti. Sembrano piastrelle ma credo di sapere che sono piu' resistenti. Non c’è porta.
La Gabbia ha una sola finestra, piuttosto grande, il cui bordo inferiore comincia a quella che sarebbe l’altezza delle mie spalle se mi alzassi in piedi. Non ha ante, è sempre aperta. Non ha sbarre ne’ cancelli, solo una zanzariera fitta fitta che sfoca la visuale. Non credo che ci passi corrente elettrica, ma per qualche motivo deve essere piu' forte di quel che sembri, altrimenti la potrei sfondare con un calcio. Se non l’ho fatto a suo tempo e sono ancora qui vorra' dire che non è una semplice zanzariera.
La Gabbia non offre panorami. Attraverso la zanzariera si vede solo un bianco sporco uniforme, che potrebbe essere un muro lontanissimo cosi' come un’istantanea di un cielo prima della neve, con poco sole. Non arrivano suoni, da fuori, salvo qualche occasionale voce lontana che grida parole inintellegibili.
La Gabbia non è arredata. Non ci sono nemmeno vasi da notte, piatti sporchi, o qualcosa di altrettanto spartano che faccia distinguere se si tratta di una punizione o di un premio. Di Fatto, la chiamo Gabbia per praticita' e convenzione, perché, suppongo, l’ho chiamata cosi' dall’inizio e il nome è rimasto.
Passo la punta della lingua sulle labbra, le sento spaccate dall’arsura. Mi guardo le braccia, e posso seguire con facilita' il tracciato delle vene direttamente tra derma e osso. Eppure non provo sete, non sento fame, non ho necessità di espellere feci o urine.
Credo di aver pensato molto una volta, verso l’inizio. Penso di aver preso in esame tutte le possibilita', forse di aver fatto piani di fuga, o magari di aver ringraziato estatica per il dono concessomi. Non me lo ricordo e non ho interesse a saperlo. Se sono qui, vuol dire che ho gia' pensato tutto il possibile e se qui resto, vuol dire che non c’è alternativa.
Enuncio i Fatti.
Enuncio i Fatti.
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